“Che cosa c’era al posto della fotografia prima dell’invenzione della macchina fotografica? La risposta più ovvia è: l’incisione, il disegno, la pittura. La risposta più illuminante sarebbe: la memoria.”

Berger John, Capire una fotografia
 

Nulla si vede nello stesso momento in cui si guarda

Quando un raggio di luce colpisce il nostro occhio, le cellule sensibili si attivano e in una microfrazione di secondo, vediamo. Lì viviamo in ritardo, una microfrazione di ritardo, ma sempre ritardo.

Questa è per me memoria.

The sun beyond your eyes è una riflessione visiva sul funzionamento della memoria, immaginata come chiave d’interpretazione per l’osservazione del presente.

Il punto di partenza del mio lavoro fotografico non è nè psicologico né scientifico, ma ricerca la rappresentazione di un immaginario intimo e non lineare come quello della memoria.

Ho provato a scomporre la struttura narrativa della memoria, analizzandola come un primordiale ed essenziale racconto fatto di immagini.

La ricerca visiva si sviluppa attraverso figure e luoghi senza tempo, partendo da un mondo interiore ho provato a ricomporre un immaginario collettivo dell’uomo.

Ho costruito questa narrativa visiva attraverso immagini in cui il tempo e il suo passare fossero protagonisti, cercando una rappresentazione incantata di questi luoghi e corpi ho preso come riferimento il linguaggio cinematografico. Ciò che rende il cinema tale infatti, nella sua definizione più essenziale, è proprio lo scorrere del tempo e il suo divenire visibile attraverso le immagini. Ho provato a fare lo stesso con la fotografia, cercando di accostare la temporalità della memoria e dei ricordi, a quella del cinema.

Ruolo chiave nel processo creativo del progetto è stato quello del caso e dell’imprevisto.

L’uso del mezzo fotografico analogico ha infatti prodotto degli errori e delle imperfezioni che a lungo andare mi hanno aiutato a costruire la struttura del progetto: una vecchia Rolleicord 6×6 causando delle infiltrazioni di luce e delle sovraesposizioni sugli scatti mi ha portato ad affiancare la memoria ed il suo dispiegamento al linguaggio della luce, dandomi così la chiave di lettura per costruire l’intero corpo di fotografie.

Ho infatti, dopo una prima fase in cui lo scontro con l’errore tecnico mi sembrava insuperabile, deciso di accogliere la componente di casualità e di errore all’interno dei miei scatti, andando a ricercare sempre più le imperfezioni e sporcature sulla pellicola.

Ho quindi deciso di utilizzare rullini scaduti e di sviluppare io stessa le pellicole, andando così a comporre immagini in cui la luce e la fotografia stessa diventassero parte del racconto visivo. La luce negli scatti svela e contemporaneamente offusca i soggetti, così come la memoria lascia emergere il passato ma allo stesso tempo lo distorce e modifica.

Le immagini così distorte ci riportano a dei flashback in cui la luce rossa delle infiltrazioni forma un flusso di luce creando delle connessioni tra le immagini, casuali ed inconsce, riproducendo così la narrativa dello scorrere dei ricordi passati.

Giada Cicchetti